Tratta e grave sfruttamento di esseri umani: parliamo d’altro

Il 18 Ottobre si celebra la Giornata Europea Contro la Tratta degli Esseri Umani e contro il grave sfruttamento di milioni di persone nel mondo. On the Road si occupa di questi fenomeni da più di 25 anni, e abbiamo sempre cercato di adeguare i nostri interventi al continuo cambiamento dei fenomeni, per riuscire ad offrire alle vittime delle opportunità di emancipazione e di autodeterminazione e per sostenere il lavoro delle Procure e delle Forze dell’Ordine nel contrasto alle reti criminali che costringono minori, donne, uomini e persone transessuali a subire vessazioni e soprusi di ogni genere.

Lo scopo delle giornate celebrative come quella del 18 Ottobre è di riuscire a catturare l’attenzione del pubblico più vasto, e far passare qualche informazione che serva a rendere la cittadinanza più attenta e partecipe degli sforzi che vengono fatti.

Ma l’opinione pubblica è continuamente sollecitata ad essere attenta e partecipe rispetto a una miriade di problemi specifici, tutti importanti: la fame nel mondo, le guerre, il disastro climatico, le malattie trasmissibili. E oggi in cima ai pensieri di tutti c’è l’angoscia per i prossimi mesi, che si preannunciano difficili, forse catastrofici, per la situazione sanitaria ed economica.

Forse può essere meglio parlare d’altro, e non di ciò che emerge dalla cronaca dei giornali o da quanto ci raccontano gli uomini e le donne con cui lavoriamo tutti i giorni, che ci parlano di violenze fisiche e psicologiche, di corpi e anime sfiancati dal subire la fatica, l’umiliazione, la paura, il disprezzo, e anche il razzismo, la discriminazione, l’esclusione.

Che si parli di prostituzione o di lavoro nei campi, nei cantieri, o nelle case come badanti, la fenomenologia della sofferenza e del sopruso si ripete, e forse perde la sua capacità di suscitare indignazione, e trasformarsi in impegno per un cambiamento. 

Forse dovremmo parlare d’altro, dovremmo parlare della nostra vita quotidiana, del nostro mondo che è fatto anche di discorsi pubblici (il racconto del mondo dalle tv, i giornali, i social media) e discorsi privati (le convinzioni, le idee che condividiamo con i nostri amici, famigliari, colleghi).

Forse nel racconto dei media, e nella nostra rielaborazione privata e condivisa, ci possono essere degli elementi che contribuiscono, non solo ad accettare lo stato delle cose, ma addirittura a rafforzarne i presupposti, a cementare la base ideologica su cui si fondano i fenomeni di cui ci occupiamo.

Ad esempio, nel discorso pubblico, e spesso anche nei discorsi privati, il valore economico del lavoro è spesso declinato in “costo”, e sembra ovvio che il valore del nostro tempo lavorativo (il salario) non debba essere proporzionale a quanto serve per vivere decentemente, ma debba essere valutato in base alla competitività, al potere contrattuale delle nostre competenze che portiamo al “mercato” del lavoro.

Così possiamo, ad esempio, sentire persone dire che 2 euro all’ora, per un migrante che lavora nei campi, può andar bene, perché non è un lavoro qualificato, e comunque il migrante viene da paesi dove si guadagna molto meno. Mentre non sarebbe accettabile per un lavoratore italiano.

Questi discorsi diventano “cultura” condivisa, e generano discriminazione, cultura dell’apartheid, negazione dei principi di uguaglianza sanciti dalla nostra bellissima Costituzione. Ma le logiche del mercato e della competitività come anima dell’economia (e quindi del mondo) sono diventate parte di noi, erodendo anche la nostra memoria, facendoci dimenticare che i diritti di cui godiamo oggi non sono stati “concessi” (come facevano i reali con gli Statuti) ma sono stati conquistati, a prezzo di dure lotte e sacrifici.

Se non recuperiamo il vero senso del lavoro (che non a caso è citato nel primo articolo della Costituzione, che non dice che l’Italia è una Repubblica fondata sulla competitività del mercato) come diritto, come partecipazione corale alla costruzione del mondo, non riusciremo ad inquadrare nella giusta prospettiva l’attuale situazione di grave sfruttamento dei lavoratori. 

Il caporalato, il lavoro indecente, le centinaia di migranti che vivono ammassati in baracche e casermoni per raccogliere pomodori (o per lavorare nelle grandi aziende di macellazione, o nei grandi cantieri di mezzo mondo, che oggi sono anche tra i più colpiti dal Covid19), oggi non sono distorsioni, eccezioni, errori. Sono la normalità, la regola, le basi dell’economia reale. Così come la conosciamo oggi.

Un altro esempio.
Nei discorsi privati e pubblici vengono continuamente rafforzati stereotipi di genere, nei social media le donne che esprimono delle opinioni vengono attaccate con metodi squadristi sessisti (mai nel merito delle loro opinioni). I media rappresentano le donne come oggetti erotici, o come (moderni?) angeli del focolare. Tutto ciò riafferma e rafforza la cultura maschilista dominante e giustifica le asimmetrie di potere, fino a produrre (giustificare, nascondere) le discriminazioni di genere, la violenza domestica, i femminicidi, e alimenta anche il ricorso di milioni di uomini al sesso commerciale, offerto perlopiù da donne sfruttate. Sappiamo infatti che ciò che muove molti uomini verso queste pratiche non è tanto la ricerca del piacere e del divertimento, quanto la necessità di riaffermare simbolicamente una posizione di potere nei confronti del mondo femminile.

Ci aspettano mesi molto difficili, ed è troppo impegnativo pensare ai “massimi sistemi” quando si ha paura di perdere un proprio caro per il Covid19, o di perdere il lavoro e il futuro.

Ma in realtà se il mondo fosse organizzato meglio, magari con una distribuzione della ricchezza più equa, forse potremmo superare anche questa prova senza vedere milioni di persone sprofondare nella povertà, ed essere costrette a diventare vittime di sfruttatori e papponi.

Se parliamo d’altro, se guardiamo a quello che c’è “sopra”, e a quello che c’è “prima” di questi fenomeni estremi, ci accorgeremo che siamo più vicini a queste persone di quanto crediamo: i loro problemi e i nostri problemi hanno origini comuni. E quindi anche soluzioni comuni. 

E se invece abbiamo bisogno di considerarci assolutamente altro da loro, così “altro” che ci possiamo permettere di stendere la nostra mano caritatevole e sollevare le nostre sopracciglia indignate, ma non di fare fronte comune, di condividere “la strada e il pane”, allora rischiamo di essere non la soluzione, ma parte del problema.

Ci chiedevamo un po’ retoricamente se saremmo usciti migliori da questa situazione. Non ne siamo usciti per niente, forse siamo solo all’inizio di un grande cambiamento.

Sarà l’occasione per mettere coraggiosamente in discussione quello che non funziona, anche pagando il prezzo di questa ribellione, e costruire un mondo più giusto? O saremo concentrati solo a salvare il “nostro” salvabile dando modo alle élite di raccontarcela, e di farci sprofondare nella barbarie e nella lotta di tutti contro tutti?

Non lo sappiamo, vedremo, ma sicuramente dipenderà da ognuno di noi. 

 

Fabio Sorgoni,
Responsabile Area Tratta e Sfruttamento della Cooperativa Sociale On the Road

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