Oltre gli scenari consueti della tratta di esseri umani

Tratta Articoli

martedì 15 Gennaio 2019

di Vincenzo Castelli

Per una rigenerazione epistemologica, narrativa, operativa e geografica della tratta.

Ad un anno dalla conferenza internazionale sulla tratta di esseri umani Oltre le terre di mezzo3 in occasione della quale abbiamo riunito presso la Camera dei Deputati alcuni dei massimi esperti internazionali sul tema della tratta di esseri umani, vogliamo fare il punto della situazione e provare a tracciare alcuni spunti di riflessione che possano guidare le nostre scelte future.

Da vent’anni anni è stato varato l’art.18 del Decreto Legislativo n.286/98, che tutela le vittime di violenza o grave sfruttamento attraverso un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, e da diciotto si sviluppano in Italia progetti di contrasto alla tratta di esseri umani all’interno del Fondo per le misure anti-tratta (Dipartimento per le Pari Opportunità). Inoltre nel 2020 si celebrerà il ventesimo anniversario dell’adozione del Protocollo sulla tratta di esseri umani, un appuntamento molto importante, che ci impone una riflessione su quanto è stato fatto finora.

Se in questo campo sono stati fatti passi importanti, i dati ci dicono che non è abbastanza. Da venticinque anni, organizzazioni antitratta come l’Associazione On The Road sviluppano metodologie innovative e performanti per rispondere al mutevole fenomeno della tratta degli esseri umani in Italia. Ci troviamo ora alla vigilia della riscrittura del 2° Piano d’Azione Nazionale sulla tratta e non possiamo esimerci dal partire dall’esperienza pregressa per tracciare una riflessione profonda e di ampio respiro che ci permetta di andare oltre gli scenari consueti in cui scriviamo, operiamo, interloquiamo sul tema della tratta di esseri umani in Italia in un tempo, quello presente, davvero imprevedibile rispetto agli scenari fenomenici, ma anche politico-istituzionali che si svilupperanno.

Tratta e migrazioni: una complessa linea di demarcazione

Un primo ragionamento va fatto a livello epistemologico nel tentare di comprendere come il manto terminologico della tratta abbia compreso ed incluso termini correlati pur se differenziati come schiavitù moderna (utilizzato oggi da Walk Free Foundation e ILO), sfruttamento e servitù. È importante oggi cogliere altresì la correlazione del tema tratta con tutto il pianeta dello smuggling, dell’insediamento migratorio in Italia, della congiunzione con il mondo dell’asilo. Tutto ciò pone un complesso coacervo di concetti da ri-declinare e ordinare, nel quale rischiamo davvero di impantanarci. Dobbiamo lavorare sulle vittime di tratta classicamente definite o anche sulle persone che vengono sfruttate nel nostro territorio? E che dire del re-trafficking? Dobbiamo operare finalmente anche nell’area della prevenzione? E che fare in relazione all’aumento delle persone irregolari che già da tempo sono in giro per l’Italia, nei luoghi di maggiore flusso, o meglio nei “non luoghi”?

I dati ISPI ci dicono che persone irregolari e fuori dai sistemi di protezione potrebbero aumentare di circa 110/120.000 unità nei prossimi 2 anni, portando le persone irregolari in Italia a circa 600.000 nel 2020. Quante possibili canalizzazioni di questa fragilissima popolazione vulnerabile verso forme di sfruttamento, di ingresso nella criminalità organizzata? La mafia, le tante mafie disseminate in tutte le regioni italiane, e non solo al sud, ringrazieranno. Come si potrà orientare il nostro lavoro dunque in questo ampio e complesso scenario?
Siamo senza dubbio in un limbo, oltre le terre di mezzo, per dirla con un termine di lunga navigazione.

Un pianeta in movimento

Un secondo ragionamento va fatto in ambito politico-istituzionale, riconsegnando al pianeta “migrazione” il suo significato profondo. Riflettiamo sul serio (e non per utilizzo becero e indecente da parte dei politicanti oggi di moda) sul significato del “movimento” che ha determinato il processo migratorio nel mondo. E di come questo processo determini in forma dirompente cambiamenti strutturali ed epocali a tutti i livelli: spaziali, temporali, quotidiani, relazionali e commerciali (cose su cui davvero non si sta assolutamente ragionando). Questo “movimento” ha determinato e continua sempre più a determinare ovviamente politiche ballerine, fatte di barriere, muri, imposizioni, controlli, identificazioni e rimpatri (dis) onorevoli. Dobbiamo rivedere questa dimensione migratoria in forma totalmente nuova, a livello strutturale e paradigmatico.

L’approccio securitario e il suo superamento

Un terzo ragionamento va fatto cercando di rompere lo schema originario, ritornato in auge, che prevede di gestire la tratta di esseri umani con un forte approccio securitario, giustizialista e correlato strettamente all’area penale. L’art. 18, con il percorso sociale, è stato davvero innovativo a livello internazionale, ma proprio la sua residuale applicazione (fortemente ostacolata dagli uffici immigrazione delle Questure) certifica che siamo lontani anni luce dal vero orizzonte da ribadire su questo tavolo: le persone trafficate o a rischio di tratta e sfruttamento vanno considerate e trattate principalmente come titolari di diritti piuttosto che come vittime di reato.

Se facciamo nostro l’approccio dei diritti delle vittime di tratta, notiamo come tutto il sistema tratta si è strutturato in questi anni, fatto di diffidenze, dinieghi, controlli e identificazioni, costruito su una sorta di doppia lettura della dimensione identitaria della vittima di tratta come collaboratrice di giustizia, nella logica verticistica del do ut des, o come persona incapace di intendere e di volere e dunque da redimere. Questa logica mai ci permetterà di assumere il rispetto del diritto di questa persona che vada davvero a far emergere il concetto di ingiustizia subita.

Emarginazione o integrazione

Un quarto ragionamento consequenziale dunque, a livello strutturale, è cercare di superare approcci ondivaghi sulla tratta (salvifici, assistenziali, collusivi, stagnanti) per adottare una prospettiva inclusiva e di accompagnamento alla cittadinanza. Questo è l’orizzonte necessario ed ineliminabile a cui tendere. Ciò significa rivedere l’approccio metodologico ed operativo dei nostri interventi: passare da una dimensione meccanicistica del nostro lavoro di emersioneServizi di emersione I servizi di emersione hanno l’obiettivo di facilitare l’identificazione precoce e l’aggancio di target vulnerabili, favorendo la loro emersione da condizioni di marginalità e/o fragilità, attraverso l’implementazione di interventi basati sull’outreaching, la riduzione del danno e/o dei rischi. Esempi di servizi di emersione sono le unità mobili e gli sportelli a bassa soglia. ad una più “animativa”, compassionevole e produttrice di eventi. Passare da un’accoglienza anonima e compressa in uno spazio chiuso ad una convivenza protagonista dentro la comunità locale, puntare con forza alla formazione professionale, all’inserimento lavorativo, alla vita autonoma a livello abitativo.

Serve un metodo

Un quinto ragionamento riguarda la necessità di colmare la l’assenza di strategie, metodologie e strumenti in relazione alle forme di tratta, sfruttamento, schiavitù emergenti come lo sfruttamento nell’ambito del lavoro, dell’accattonaggio e delle economie illegali, i matrimoni forzati e combinati e l’espianto di organi. Su tali forme c’è ancora tanto da conoscere, sperimentare, applicare.

Pianificazioni a lungo termine

E poi serve una pianificazione a lungo termine. È ormai consolidata la necessità di superare il localismo indifferenziato ed ininfluente della politica. Dobbiamo riuscire, oggi più che mai, a costruire una nuova cultura dell’accoglienza con un posizionamento politico-strategico di ampio respiro che permetta di superare l’utilizzo della tratta a livello governativo per giustificare politiche migratorie restrittive, attività di respingimento e, in generale, il tentativo di limitare o addirittura bloccare i flussi migratori misti. Va evidenziata la debolezza del sistema politico-istituzionale attorno alla tratta di esseri umani: una politica governata da un semplice Dipartimento, in un’area oggi impropria, con personale davvero risicato, un rapporteur interno al Dipartimento e non esterno, con una logica ancora univocamente progettuale e non di servizi, con finanziamenti annuali, o quasi, e sempre precari ed instabili, senza un osservatorio ed azioni di sistema incisive sulle linee di indirizzo da sviluppare, senza una valutazione di processo, di costi e benefici incidenti, di esiti. Per fare ciò occorre capitalizzare e mettere a sistema le pratiche rilevanti sviluppate in questi anni, sviluppare una sintonia integrata tra gli attori coinvolti nel processo, costruire protocolli, convenzioni, multi-agenzie produttive, mettere in campo un processo formativo di nuova generazione. Non bastano più gli operatori sociali dedicati, ma servono operatori di rete, mediatori qualificati, economisti, esperti di statistica, comunicatori, progettisti, urbanisti, esperti di mercato del lavoro, ecc.) per costruire non solamente le multi agenzie ma anche e soprattutto équipe multi funzionali.

Scambi di conoscenze

Un settimo ragionamento, infine, riguarda l’internazionalizzazione dei confronti, delle reti, delle geografie da assumere sulle frontiere cruciali della vulnerabilità. Senza un forte coinvolgimento nei paesi di origine della tratta, senza stare fisicamente sulle rotte migratorie, senza leggere le geografie, le culture, i métissage etnico-linguistici delle vittime di tratta rimaniamo impotenti ed inefficaci. Eppure abbiamo un Ministero degli Esteri e un’Agenzia Italiana per la Cooperazione Internazionale totalmente imbalsamati in una logica di relazioni e di supporti internazionali distanti dalle problematiche del sud del mondo e dunque anche delle migrazioni e della tratta degli esseri umani. In questo contesto, nemmeno il vecchio e imbarazzante slogan del “aiutiamoli a casa loro” potrebbe essere posto in essere. Si sta sviluppando una situazione paradossale, in cui le nostre Organizzazioni che si occupano di migrazione, asilo e tratta in Italia non lavorano nei Paesi di origine, mentre le ONG della cooperazione internazionale, che operano in quei Paesi, si trovano ad occuparsi di tratta senza averne le competenze! Ciò non permette un necessario scambio di pratiche virtuose a livello internazionale (vedasi la esperienza di On The Road a questo proposito). Tale confronto permetterebbe un lavoro più omogeneo a livello strutturale nelle aree di maggiore flusso, nelle periferie urbane con le differenti tipologie di gruppi etnici in ingresso nei diversi Paesi di transito e di permanenza.

 

di Vincenzo Castelli, Presidente Società Cooperativa Sociale On the Road 

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