Cosa comporta svolgere un Tirocinio a On the Road?

Tratta Storie

giovedì 08 Ottobre 2020

Che cosa comporta svolgere un Tirocinio a On the Road? 
Ce lo racconta una diretta interessata: Maria Teresa, che quest’anno ha deciso di fare un tirocinio da noi.
Quello che trovate di seguito è la relazione finale del tirocinio che Maria Teresa ha deciso di condividere con noi, e in cui spiega il nostro lavoro e racconta le emozioni e i pensieri che nascono durante questa “particolare e in parte sorprendente esperienza fatta“.

Grazie Maria Teresa, è stato un piacere averti con noi!

“Personalmente, le prime parole che mi vengono in mente per descrivere On the road sono le seguenti: On the road è una moltitudine di persone che lavora per salvare esseri umani, intrappolati nella grande ragnatela senza tempo dello sfruttamento.

Sono una specializzanda del primo anno di scuola di specializzazione di Studi Cognitivo-Comportamentali con sede in San Benedetto del Tronto; come previsto dalla scuola ho effettuato 150 ore di tirocinio presso la suddetta Cooperativa da giugno a settembre del corrente anno.

Il 2020 è un anno che verrà ricordato da tutti per la pandemia della malattia da coronavirus (covid-19), in quanto da mesi interessa tutto il mondo e, in Italia, ad oggi (14/09/2020), ha fatto 35610 vittime e ha contagiato in totale 287753 persone; io ho la fortuna di legare a questo 2020 anche la particolare e in parte sorprendente esperienza fatta al Dropin di On the road presso la sede di San Benedetto del Tronto (AP). Quando a giugno ho iniziato il tirocinio, la Cooperativa era nel pieno dei cambiamenti resi necessari dai decreti emanati dal Presidente del Consiglio dei ministri (d.P.C.m.) a seguito della già citata pandemia.

A differenza di quanto sarebbe avvenuto in circostanze normali, non ho assistito ad incontri con l’utenza che di solito fa riferimento al Dropin della Cooperativa. Il Dropin è infatti uno sportello di prima assistenza a cui fanno riferimento persone sfruttate lavorativamente o vittime di tratta e, per questo, in stato di bisogno.

Ciò che è accaduto è che ho interagito con le operatrici del Dropin: Sara, Alexandra, Samuela e, ovviamente, con la mia tutor Patrizia. Queste ultime, come api laboriose, non hanno mai smesso di lavorare nei mesi del lockdown, nè a seguire, intente a trovare nuove soluzione per portare avanti i progetti di aiuto previsti per le persone più bisognose, nonostante il periodo così confuso e problematico. Per giorni e giorni ho letto protocolli riguardo il funzionamento della Cooperativa, ho parlato con le operatrici che mi hanno spiegato come operano finanche sul campo, sulla strada, on the road appunto, per tentare di sottrarre tante vite allo sfruttamento. Ho conosciuto donne che di notte vanno a offrire una via di uscita ad altre donne bisognose; di notte queste Alexandra, Samuela ed altre vanno direttamente sulla Bonifica del Tronto, zona tristemente nota per essere uno dei posti in cui la prostituzione è un fenomeno massicciamente radicato in questa lingua delle Marche a confine con l’Abruzzo; di notte queste donne portano informazione (tramite opuscoli sulle malattie a trasmissione sessuale, sui numeri di emergenza di On The Road, sulle forme di assistenza sanitaria a cui potrebbero accedere queste donne prestate alla prostituzione), e offrono materiale quale preservativi e gel lubrificanti: si, gel lubrificanti, perché queste prostitute sono donne, che devono spingere al massimo l’unico strumento che hanno, ovvero il proprio corpo e che quindi sono costrette ad avere anche 7, 8,9 rapporti sessuali a notte. Questo vuol dire che a un certo punto si va oltre ciò che è fisiologicamente consentito e il corpo è sfinito e bisogna regalare del gel lubrificante a queste donne per ridurre la quantità di ferite e lesioni vaginali conseguenti a tale sforzo disumano.

Ad un certo punto, dopo qualche giorno di tirocinio, mi è stata offerta la possibilità di leggere le storie delle persone che sono passate attraverso On the Road; sono storie ricavate da colloqui voluti dalla Commissione Territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale di Ancona, che si occupa di decidere se offrire asilo ai migranti che lo richiedono, in base appunto al riconoscimento di una storia di sfruttamento e al rischio di pericolo per la loro vita qualora venissero rinviati in patria; Commissione che incarica appunto la Cooperativa On the Road di svolgere queste indagini attraverso colloqui.

La maggior parte delle storie che ho letto appartengono a donne nigeriane. Sono storie incredibili.

Leggere tante storie tutte così uguali, così crude, così violente mi ha fatto sentire sbagliata. Mi sono sentita sbagliata per essere nata nella parte fortunata del mondo, dove queste storie non sono la regola e dove alcune cose nemmeno sono concepibili o immaginabili.

Ciò che ho compreso è che queste donne, in realtà se fossero italiane sarebbero considerate poco più che bambine dato che spesso hanno tra i 14 e i 19 anni quando inizia il loro calvario; sono giovanissime donne che vengono truffate approfittando di tre semplici elementi chiave: ingenuità, ignoranza e riti voodoo, il tutto su una evidente base di povertà.

Le storie sono tutte molto simili: giovani ragazze ingenue avvicinate con la promessa di un lavoro dignitoso in Europa, spesso proprio in Italia, e con cui mantenere la famiglia.

I trafficanti cercano vittime giovani e poco coscienti di ciò che le aspetta in Italia, ma soprattutto del lungo viaggio e della permanenza in Libia in attesa di essere imbarcate.

La prima parte del viaggio di solito è da Benin City al deserto, conta numerose tappe e, a ogni controllo delle forze dell’ordine le ragazze devono pagare o con somme di denaro o subendo stupri; tutto questo fino ad arrivare in a Tripoli. In Libia la violenza sessuale contro donne e ragazze è un passaggio obbligato a cui quasi nessuna può sfuggire. Una violenza crudele, che si consuma all’interno di ghetti, in connecting house dove, tra miseria, sporcizia e degrado le ragazze vengono tenute in condizioni deplorevoli, costrette a subire stupri e violenze indicibili. Quando poi finalmente le ragazze raggiungono la costa, attendono anche per lunghe notti l’arrivo del gommone che le porterà verso l’Italia.

Dietro la promessa di un lavoro, le ragazze nigeriane vengono lasciate partire o sono persino incoraggiate a intraprendere il viaggio dalla stessa famiglia, in modo tale da garantire un futuro migliore per se stesse e per i propri familiari rimasti nel Paese d’origine. La cifra richiesta per pagare il viaggio è molto elevata e può raggiungere anche 30.000€. Anticipare i costi del viaggio rende schiava la ragazza, che subirà violenza sessuale e sarà costretta a prostituirsi già durante il viaggio. Senza contare che, talvolta, al debito per il viaggio si aggiunge il peso della famiglia che chiede continue somme.

Quando le giovani giungono in Italia sono prive di qualsiasi mezzo di sostentamento e, avendo contratto un debito, rimangono totalmente assoggettate ai trafficanti. Per le ragazze “i soldi da pagare sono tanti, molti di più di quelli che si immaginavano al momento della partenza, le spese della casa e del cibo non fanno parte del pacchetto-viaggio e per questo le giovani si ritrovano a lavorare fino a 12 ore in strada, abbassando i prezzi”.

Le ragazze scendono in strada tutte le notti, anche per 10-20€ a prestazione. Generalmente riescono a guadagnare dai 300 ai 700€ al giorno, ma nei fatti le giovani ne trattengono pochi per se stesse: una parte viene loro sottratta direttamente dalla mamam (la figura femminile che sfrutta le ragazze in Italia), un’altra parte destinata a pagare vitto e alloggio, così come a comprarsi i vestiti che devono necessariamente indossare per imposizione degli sfruttatori. Talvolta sono persino costrette a pagare l’affitto del marciapiede.

Ed è così che i tempi per estinguere il debito in Nigeria si dilatano inesorabilmente.

Le organizzazioni criminali, per soggiogare le ragazze, fanno leva su credenze e superstizioni, come il c.d. rito juju, che assoggetta psicologicamente le ragazze per costringerle a ripagare il debito.   Qualora le ragazze pensassero anche solo lontanamente di non onorare il debito, le conseguenze del rito juju si abbatterebbero sui familiari, e tanto basta a farle desistere da qualunque pensiero di disattendere il patto.

Ecco spiegato come e perché On the road interviene sulla strada, sul “posto di lavoro”.

Quando le ragazze comprendono meglio ciò che la cooperativa può aiutarle ad ottenere (soprattutto dal punto di vista sanitario), si mettono in contatto: il primo impatto è quello di sfruttare il più possibile le possibilità che la cooperativa offre, per ottenere documenti, tessere sanitarie, per essere ospitate in qualche sede… d’altra parte sono ragazze che non si fidano più di nessuno. La loro ingenuità l’hanno pagata ad un prezzo altissimo. Hanno però imparato a essere sfruttate e quindi a sfruttare.

Ciò che ho pensato a conclusione di questo periodo di tirocinio è innanzitutto che quando vediamo tutta questa umanità nera che sbarca sulle coste italiane dovremmo essere più consapevoli da quale inferno vengono. Lungi dal voler fare discorsi politici o moralisti desidero solo condividere ciò che è accaduto a me dopo aver letto tante storie, dopo aver letto un libro che spiega il funzionamento della mafia nigeriana (che si mantiene principalmente attraverso lo sfruttamento della prostituzione), dopo aver parlato con le operatrici di On the road: ho compreso il valore della cultura.     Aver avuto accesso a tante fonti di informazione mi ha consentito di uscire dalle mie fantasie più o meno confuse sul fenomeno della migrazione e mi ha aiutato a comprendere che calvario e quanta sofferenza c’è dietro a quei volti. Ho scoperto che anche gli uomini nigeriani subiscono violenze, soprusi, stupri, come le donne, ma per loro è previsto altro tipo di sfruttamento, quello lavorativo: in Italia è tristemente noto il fenomeno del Caporalato.

Le informazioni a cui ho avuto accesso in questi mesi mi hanno fatto riflettere su quanto debba essere difficile liberarsi dalla morsa dei riti juju per queste vittime; quanto debba essere difficile vivere dopo tutte le violenze subìte, quanto debba esser difficile credere ancora in qualcosa di buono.

La cultura è uno degli elementi che sono mancati nella vita di questi nigeriani assoggettati alla rete dello sfruttamento. Si tratta di persone poverissime e con un livello di istruzione minimo, per questo è così facile far credere loro che l’Europa li stia aspettando per offrire posti di lavoro.

La loro ignoranza gli impedisce di comprendere che 30000 euro non valgono come 30000 naira -moneta nigeriana- bensì 13633215,53 naira.  É inoltre intuitivo e plausibile ipotizzare che chi sopravvive agli orrori delle connection house ne risulti indurito, incattivito, arrabbiato e sfiduciato. Eppure, durante i colloqui con la cooperativa, queste donne a volte contrappongono ad un apparente gelo emotivo, qualche lacrima che sfugge al proprio controllo, che restituisce ritmo per qualche attimo al battito cardiaco e ricorda a loro stesse di essere ancora persone, nonostante tutto.

A conclusione di questa relazione mi sento di ringraziare tutte le operatrici con le quali mi sono interfacciata, la mia tutor che mi ha consentito di fare un’esperienza così interessante, e tutte le persone che lavorano presso on the road che fanno un lavoro importantissimo consentendo al nostro Paese di differenziarsi anche in merito alle capacità di recupero, inclusione e integrazione dei migranti vittime di tratta e/o sfruttamento.”

 

Foto di Pixabay

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